Impermanenza
In questo periodo mi gira per la testa una frase: niente è veramente mio.
Che senso ha possedere delle cose?
Quanto mi piace dimenticare che tutta la mia vita è già cambiata tante volte e continuerà a farlo, nonostante il mio voler credere che tutto sia immutabile.
Mi sembra che ho attaccato delle cose intorno a me, come fossero tanti salvagenti; le tengo appiccicate insieme, in modo da vedere sempre lo stesso panorama.
Più cose metto e più posso guardare lontano e vedere sempre le stesse cose, ed allontanare l’ignoto, e sentirmi più sicura.
Ma, se togliessi tutto, cosa sarei? E sarei migliore, peggiore o semplicemente uguale?
Mi viene in mente San Francesco che si spogliò di tutto per affidarsi completamente a Dio; ma non chiamerei in causa Dio, a meno che non se la senta di lasciare un commento qui.
E mi viene anche in mente un periodo in cui avevo più disponibilità e, passando davanti alle vetrine, se vedevo una cosa che mi piaceva, ma non era così necessaria, pensavo “Ok, posso comprarlo”, ma non lo facevo perchè mi sembrava che avrei ottenuto solo di cambiare posto ad un oggetto: lo avrei solo spostato da lì a quì.
Ma che differenza avrebbe fatto, poi, veramente?
Tante altre volte compravo e basta, sia chiaro, e che antidepressivo lo shopping spensierato!
Insomma, come al solito, i pensieri sono confusi e non trovo il bandolo della matassa, ma credo che da qualche parte debba esserci un senso.
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Su Wikipedia ho trovato che:
La dottrina dell’an?tman è propria del Buddhismo, e afferma l’inesistenza dell’?tman, cioè di un io individuale permanente.
inoltre
Dukkha (in Pali sofferenza). È, come disse il Buddha storico in occasione del suo primo discorso, la condizione di sofferenza che accomuna tutti gli esseri senzienti (esseri infernali, animali, uomini o divinità) ed è intrinsecamente legato a tutti i cicli di esistenza. Insieme al concetto di non anima (anatman) e di impermanenza (anitya), il dukkha è dunque uno degli elementi essenziali di ogni essere.
La sofferenza così si perpetua attraverso il samsara e, attraverso il karma fa subire ciò che si odia, fa perdere ciò che si ama e non fa ottenere ciò che si desidera.
Hai capito?
O, come direbbero a Roma, me cojoni!
Insomma, secondo il Buddhismo, avrei un certo karma da smaltire; vabbè me lo immaginavo che nelle vite precedenti non ero stata una santa, sennò sarei già uscita dal samsara, no?
Però non vorrei scomodare neanche Buddha, se fosse possibile; vorrei rimanere con i piedi piantati a terra, a trovare un filo mio, questo si, mio, che si adatti a me.
Anche se la condizione che vivo è condivisa da tutto il genere umano, le mie esperienze, le mie conoscenze, la mia storia è diversa da tutte le altre.
Forse la conoscenza è l’unica cosa veramente nostra?
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Prima di addormentarmi, ho iniziato “Achille piè veloce”, di Stefano Benni, che casualmente riportava questa frase:
Scrivere nasce dal leggere e al leggere è grato. Scrivere è una delle poche cose rimaste uniche e nostre, dalla firma al romanzo, dal primo tema al testamento.